Cronaca
9 Ottobre 2018
Udienza fiume dedicata al periodo della vigilanza di Bankitalia: “Chiedevamo che i sottoscrittori fossero soggetti in grado di valutare il rischio, al di là della normativa Mifid”

Processo Carife. Il “mutuo soccorso” tra banche che “annacquava l’aumento di capitale”

di Daniele Oppo | 6 min

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“Sinceramente, questo mutuo soccorso, per quanto lecito e al di là della eventuale contemporaneità; il fatto che ci fossero scambi azionari così ‘baciati’, forse sarebbe stato utile saperlo, perché un po’ annacquava quell’aumento di capitale”.

In teoria sarebbe dovuto essere l’ex dg di Bankitalia Fabrizio Saccomanni il protagonista della lunghissima udienza di lunedì 8 ottobre del processo Carife. In realtà la scena è stata quasi interamente occupata da Carlo Di Salvo, che fu il responsabile della vigilanza a cui venne sottoposta la Cassa estense tra 2009 e 2012.

La sottoscrizione reciproca di capitale. A scoprire quelle sottoscrizioni reciproche, quel “mutuo soccorso” come definito da Di Salvo, fu proprio la vigilanza, dopo aver avviato l’ispezione del 24 settembre 2012. “L’ispettore vide partecipazioni incrociate e di acquisto di prestiti subordinati e altri strumenti”, ha raccontato Di Salvo, chiarendo che da parte del management di Carife, “non ci fu assolutamente rappresentata questa cosa”. Sarebbe stato invece importante farlo: “L’esigenza era quella di sapere se la reciprocità avrebbe portato anche a un ulteriore intervento quando necessario. Sapere se il mutuo soccorso avesse una valenza solo temporanea o anche per il futuro”. In ogni caso, pur essendo in astratto lecita, “la sottoscrizione reciproca non è un operazione che alla vigilanza piace”, e avendone avuto contezza “Bankitalia avrebbe potuto richiedere ulteriori interventi, ad esempio chiedendo di cedere ulteriori partecipazioni”. Sono risposte importanti, che danno idea di cosa sia accaduto, perché quell’aumento “annacquato” è una delle principali accuse mosse ai dodici imputati.

Scambio di informazioni tra Bankitalia e Consob. C’è però anche da rilevare come lo stesso Di Salvo abbia qualificato la stessa operazione di aumento di capitale come non imperativa. La capitalizzazione da 150 milioni per raggiungere il target dell’8% del Tier 1 “non  è una prescrizione ma un obiettivo, una raccomandazione importante ma non prevede sanzioni. Era la modalità adottata da Bankitalia prima del 2014. Senza il raggiungimento dei 150 milioni di aumento di capitale non si configurava il presupposto per l’amministrazione straordinaria anche se ci sarebbe certamente stata un’azione pressante, come richieste di cessioni coatte di asset”. Anche per questo non ci fu uno scambio totale di informazioni con la Consob, l’altro organo di vigilanza coinvolto nel processo nel ruolo di vittima, come “ostacolato” dalla vecchia dirigenza della banca. Secondo quanto raccontato da Di Salvo, l’organo di vigilanza dei mercati ha ottenuto, sulla base dei protocolli d’intesa dell’epoca, le informazioni che ha richiesto per predisporre il prospetto informativo, ma anche “qualcosa di più per gli standard dell’epoca”, ovvero una lettera con le “ sulla situazione della banca, indicando elementi di criticità e sofferenza, concentrazione del rischio. Veniva messa in rilievo la situazione della banca e perché chiedevamo l’aumento di capitale”. Però non ha ottenuto tutto, perché la prassi di allora non prevedeva la comunicazione di quelle che erano semplici raccomandazioni, anziché prescrizioni vere e proprie.

Le “spalle forti” dei destinatari dell’aumento di capitale. Altro nodo fondamentale toccato da Di Salvo è stato quello della clientela a cui “offrire” le nuove azioni, che è il centro anche di molte discussioni politiche e sociali dato il coinvolgimento di soggetti poco esperti. Se l’autorizzazione di Bankitalia formalmente richiedeva fosse destinata ai soci e, per la parte non opzionata, a una clientela “indistinta”, fu la stessa Bankitalia in almeno due interlocuzioni a specificare da un lato il “bisogno di qualcuno che abbia le spalle forti, imprenditori o privati, con capacità di apprezzare il rischio e che garantisca la continuità di Carife” e dall’altra chiede “un’adeguata valutazione del profilo di rischio dei destinatari dell’offerta”. “A prescindere dagli obblighi normativi di informativa Mifid – ha specificato di Salvo -, Bankitalia chiedeva che fossero soggetti in grado di valutare bene il rischio”, ovvero “soggetti che potessero supportare banca nel momento del bisogno”. Ciò non significa che dovessero essere solo clienti propriamente “istituzionali”, ma dovevano essere magari imprenditori o privati con le capacità giuste. Anche perché la Fondazione aveva fatto capire di non essere disponibile, essendo in crisi, a sottoscrivere capitale, limitandosi a proporre una garanzia di ultima istanza, ovvero a sottoscrivere le eventuali azioni mancanti per raggiungere l’obiettivo di 150 milioni di euro. Il grosso delle azioni – questo è storia- andò invece alla clientela retail: 87 milioni di euro. Una quota che il pm Stefano Longhi ha, en passant, osservato essere “curiosamente più o meno la stessa cifra per la quale la Fondazione aveva proposto la garanzia”.

La questione del piano industriale. La procura, in particolare la pm Barbara Cavallo, ha insistito molto sul fatto che il piano industriale presentato dalla dirigenza Carife alla vigilanza fosse diverso da quello effettivamente approvato dal Cda. Durante la deposizione sembra però essere emerso che o a Bankitalia fosse stato fornito un piano più dettagliato rispetto al Cda o che, in realtà, il prospetto fosse diverso nella forma ma con gli stessi contenuti sostanziali.

Verso il commissariamento. In ogni caso le misure intraprese per salvare Carife non diedero gli effetti sperati, forse anche perché arrivate in parte con molto ritardo o in maniera difforme rispetto alle prime segnalazioni di Bankitalia: “Avevamo richiesto un rafforzamento patrimoniale, con un mix di cessione di asset in perdita che pesavano sulla banca, come Commercio & Finanza (mai venduta, ndr) e di ristrutturazione del gruppo. Siamo arrivati all’aumento di capitale solo dopo un anno di richieste – ha aggiunto Di Salvo -, in quel momento storico significava aver perso un anno perché le cose progressive peggioravano. Perdere tempo significava perdere valore, capitale economico”. Il perdere tempo è ben rappresentato da almeno due “fatti” portati ad esempio: “È stata chiesta la ristrutturazione del gruppo nel 2009, è stata fatta nel 2012. È stata chiesta un’adeguata pulizia dei crediti nel 2009 e nel 2012 ancora c’era pulire una quota del portafogli”. Per non parlare del “fenomeno delle sliding doors”, tra Fondazione e Cassa, con “Lenzi che subentra a Santini dopo che era stato in Fondazione, mentre noi avevamo chiesto un management indipendente”.

Insomma la cura non funziona – “al 31 dicembre del 2011 i coefficienti di Carife cominciano a scendere” – la vigilanza aumenta la pressione.  A settembre 2012 gli ispettori entrano in corso Giovecca e a febbraio 2013 escono con il loro giudizio: 6 su 6, che significa il massimo dell’insufficienza: “Pesava il fatto che più di un terzo degli impegni aveva un andamento anomalo, tant’è vero che la Cassa ebbe un problema di liquidità di 200 milioni e che nel 2012 chiuse in predita di 105 milioni”. A maggio 2013 arriva il commissariamento, ma ormai Carife, oggi lo sappiamo, è già un morto che cammina.

Fabrizio Saccomanni

Saccomanni. A pomeriggio inoltrato è toccato finalmente all’ex direttore generale della Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni, che ha confermato in sostanza di aver firmato il decreto che autorizzava l’aumento di capitale del 2011 e che “fu segnalato alla Consob la necessità di rafforzamento della banca”, ma ha precisato di avere una conoscenza molto limitata del caso.

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